Romeo Cini, che attualmente vive in Australia
traduzione dal sito http://www.maltamigration.com/history/romeo-cini's-tripoli
il prof Cini ha anche scritto un libro che narra le vicissitudini del gruppo di anglo-maltesi deportati a Fraschette. Le foto sono tratte da quel testo grazie alla collaborazione di Concetta Ellul
“Nel gennaio 1942, come un fulmine a ciel sereno, l’intera comunità venne arrestata. La comunità era formata allora da circa 2500 persone. Il 18 gennaio 1942 fummo imbarcati su tre navi merci. Io arrivai a Napoli e con gli altri fui messo su un treno, senza sapere la nostra destinazione. Con la mia famiglia e con la maggior parte della comunità (600 persone), arrivai a Fiuggi, presso il Grande Albergo, un hotel chiuso da tempo ma riadattato ad alloggio per internati politici. Non avevamo nulla, perché ci avevano fatto abbandonare i bagagli al porto di Napoli. Fummo spogliati e disinfettati. Il giorno dopo ricevemmo i nostri abiti puliti e vedemmo, piacevolmente sorpresi, che stava nevicando. Era la prima volta che vedevamo la neve.
Il primo ottobre 1942 ci fu
ordinato di prepararci per il trasferimento al campo Fraschette[…] Quando arrivammo
al campo trovammo fango dappertutto a causa della pioggia torrenziale e dei
lavori non ancora terminati. Ci stabilimmo in una grossa baracca dove trovammo
file di cuccette con un materasso di paglia, tre coperte militari e un cuscino
ciascuno. Le baracche erano divise in camerate con un lungo corridoio.
Appendemmo alcune coperte per garantire un po’ di intimità alle donne. Il cibo
era disgustoso e scarso, soffrivamo la fame. Mio padre si lamentò con il
direttore del campo che era una brava persona, ma che non poteva andar contro
alle direttive ricevute.
La fame cominciò a farci deperire
fisicamente. Mi ricordo che, quando riuscivamo a trovarle, le castagne erano
l’unico alimento per calmare la terribile fame. Mi ricordo anche che alcuni
soldati italiani che sorvegliavano il campo, davano parte della loro razione di
pane ai bambini. Uno di loro era un siciliano di Canicatì, il cui nome non
scorderò mai: Zettero.
Una sera a fine novembre 1942, mentre eravamo seduti ai tavoli aspettando il pasto, la luce se ne andò lasciandoci al buio per parecchi minuti. Facemmo molto rumore con le nostre scodelle e un bimbo di 4 anni preso dal panico scappò dal controllo di sua madre. Inciampò e andò a finire nel calderone di zuppa bollente. I soldati accorsero e lo tirarono fuori, lo portarono subito all’ospedale di Alatri, ma le sue ustioni erano così gravi che morì. Quel bambino si chiamava Gaetano Falzon ed è sepolto al cimitero di Alatri. La fame era così terribile che non ci permise di rifiutare quella terribile zuppa. Oggi, con il cuore che mi trema, devo ammettere che tutti la mangiammo.
Mio padre continuava a scrivere alla
delegazione svizzera chiedendo l’intervento della Croce Rossa. Il 4 gennaio
1943, il primo vagone di viveri arrivò alla stazione di Frosinone. Le provviste
furono conservate in un magazzino assegnato alla nostra comunità come dispensa
e ufficio amministrativo. Mio padre ed altri maltesi gestivano l’ufficio. Da
allora la situazione migliorò.
Dopo pochi
mesi i lavori nel campo furono terminati. C’era una piccola chiesa molto bella
dedicata a San Francesco, una scuola e un sanatorio gestiti dalla suore, docce,
campi sportivi, un bar all’entrata del campo e negozi di alimentari gestiti da
tripolitani che avevano ottenuto l’autorizzazione a gestire piccoli esercizi
commerciali. A febbraio fummo trasferiti in una parte migliore. (…) Passavamo
qualcosa ai prigionieri slavi che non ricevevano aiuti umanitari nemmeno dalla Croce
Rossa. Il campo era diventato per noi un
piccolo villaggio abitato da internati politici che aspettavano solo la fine
della guerra, avevamo anche una buona squadra di calcio e giocavamo contro la
squadra degli slavi e quella dei guardiani del campo. Avevamo fatto amicizia
con dei soldati italiani, tanto che quando loro tornavano a casa gli davamo
sigarette cioccolato e the che noi ricevevamo con gli aiuti, perché li
portassero alle famiglie. Indimenticabile per le sue azioni malvagie è rimasto
un sergente soprannominato “Marionette”. Era basso, prepotente e soprattutto
geloso dei nostri ragazzi che frequentavano le belle slave, spesso li puniva
con la detenzione in isolamento..
L’8 settembre 1943, due jeep di
tedeschi arrivarono al campo per disarmare gli Italiani. Alcuni di loro si
nascosero nelle nostre baracche e noi demmo loro degli abiti civili con cui
poter scappare. I tedeschi ci dissero di non lasciare il campo, ma gli slavi
fuggirono, ma noi restammo al campo senza custodia. I problemi ricominciarono
di nuovo: gli aiuti non arrivavano più e i negozi erano vuoti, tre giovani
furono inviati in missione presso la delegazione svizzera, la pericolosa
impresa riuscì e arrivò una grossa somma di denaro che noi usammo per comprare
da mangiare. Un giorno arrivarono dei tedeschi e presero gli uomini per
portarli ai lavori forzati: dopo alcune settimane essi fuggirono e tornarono al
campo. Temendo una seconda retata mio padre suggerì ai giovani e agli uomini
idonei a lavorare di fuggire sulle montagne circostanti. Ci rifugiammo nei
fitti boschi aiutati dalla gente che abitava là e dalle nostre donne che
venivano a trovarci e a portarci da mangiare.
A metà dicembre tornammo al campo.
Il 15 febbraio una squadra
di aerei americani bombardò Fraschette, noi eravamo vittime innocenti dei
nostri stessi alleati. Non avevano vie di fuga. Alla fine contammo i morti e i
feriti, questi ultimi furono trasporti da mezzi civili giunti in nostro aiuto
all’ospedale di Alatri. I feriti erano molti e anche i mutilati permanenti, tra
loro c’era Pasqualino Costa che è con noi a Melbourne, che perse il braccio
destro. In quel tempo di paura le autorità civili italiane e quelle militari
tedesche ad Alatri ordinarono l’immediato sgombro del campo.”
“Il trasferimento iniziò nel pomeriggio
di quello stesso giorno sotto una pioggia torrenziale. Prima donne anziani e bambini furono aiutati a salire sui camion
e furono portati in un convento di suore ad Alatri, alloggiati in grandi sale
su coperte stese sul pavimento. Nel pomeriggio del giorno seguente solo una
piccola parte della nostra comunità venne trasferita a Roma, all’Accademia
Britannica. Il resto arrivò il giorno dopo.”
Dopo
un lungo viaggio i Maltesi a arrivano a Carpi. Da qui li portano al campo di
concentramento di Fossoli,
Cini
ricorda:
“[...] Nell'aprile del '44, il giorno di
Pasqua, l'intera popolazione di Fossoli, accompagnata dal Sindaco e dal medico
locale, chiese alle autorità tedesche di permettere ai bambini di lasciare il
campo e di trascorrere il giorno di Pasqua
e quello seguente nel tepore delle loro case. La gente di Fossoli disse
che si sarebbero presi loro ogni responsabilità. Questo fu un grande gesto, a cui i tedeschi
acconsentirono. Tutte le famiglie di Fossoli vennero al campo a prendere i
nostri bambini e li riportarono la sera con vestiti nuovi e molte altre cose
buone. Questa dimostrazione di umanità dei modenesi toccò così a fondo i nostri
cuori che non la dimenticheremo mai.
Alla nostra partenza, la gente ci salutò
con calore augurandoci ogni bene. Che brava gente! Meritano che per un momento io li ricordi per il loro
grande cuore.”
le ultime quattro foto dei ragazzi al campo di Fossoli sono state gentilmente concesse da Rita Mascina
testo tratto dal libro "le Fraschette di Alatri da campo di concentramento a centro raccolta rifugiati e profughi" di Costantini e Figliozzi
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