Sul finire degli anni quaranta l’
U.S. Alatri calcio si iscrive al campionato di prima divisione, ma la rosa dei
giocatori deve assolutamente essere rinforzata. Flavio Fiorletta, tra i
dirigenti di allora della società
sportiva a questo proposito racconta a Rolando Mignini : “Inizialmente ci siamo rivolti al vicino centro delle Fraschette dove
sapevamo che erano ospitati grandissimi campioni. Uno su tutti: Kubala. Ricordo
che non si volle inizialmente prendere nessuno da Frosinone a causa della
rivalità sportiva. Mi viene in mente uno yugoslavo: Pesaski, che era arrivato
in Italia da clandestino, dopo aver scavalcato la rete al confine. Plicik, che
si trasformò in portiere per le nostre esigenze, con dei risultati
strabilianti. Oltre alle ginocchiere si metteva anche le gomitiere.
Poi due ungheresi: il leggendario Thot e Zoltan personaggio molto
schivo. Quest’ultimo correva per tutta la gara in prossimità della linea
laterale e sistematicamente rimetteva al centro dei palloni millimetrici. Un
austriaco: Herbert che di pallone non capiva niente ma che aveva un fiato
inesauribile; il suo compito era di disturbare ai quattro angoli del campo gli
avversari con il pallone ai piedi. Insomma un guastatore chiamato a fare
movimento ed effervescenza.”
Insomma un’autentica multinazionale del calcio che in
quell’epoca in Italia non poteva permettersi nessuno o quasi. “Indubbiamente! Lasci che le racconti un
episodio che sintetizza bene l’incredibile Alatri di allora. Andammo a
Pontecorvo per una gara di campionato. In squadra avevamo la bellezza di
quattro nazionali ungheresi. Tutti rigorosamente sotto falso nome. Uno in
particolare, Pesaski, che poi farà per noi anche l’allenatore, non sapeva
assolutamente nulla di italiano. Al momento dell’appello quando sentiva
pronunciare il cognome Bauco, doveva solamente alzare il braccio e rispondere:
Sisto. Le posso assicurare che era un autentico squadrone”(…)“Ci accorgemmo
presto che questa situazione non poteva radicarsi. Questi stranieri, seppure
dei fuoriclasse, vivevano una situazione per loro drammatica. Non
dimentichiamoci che erano fuggiti dai loro paesi per svariati motivi. Mal
nutriti, lontano da casa, senza nessuno vicino, con un futuro incertissimo, era
impensabile vederli giocare al meglio, anche se il calcio per il loro futuro
rappresentava un’occasione di reinserimento in una vita normale
importantissima. Vedi il caso degli ungheresi Kubala e Puskas in Spagna.
In quel tempo poi si verificò un fatto decisamente grave. Fra i
giocatori delle Fraschette che utilizzavamo c’era uno yugoslavo di nome Smoliza
che aveva giocato anche con la Reggina. Sul
campo era un fenomeno. I suoi compagni vennero a sapere che in realtà faceva la
spia alle autorità del suo paese e proprio alla polizia slava aveva
spiattellato tutti i nomi dei suoi connazionali rifugiati alle Fraschette. La
conseguenza fu che in Yugoslavia tutti i parenti di questi ragazzi rifugiati da
noi, subirono delle azioni repressive ovviamente per una sorta di vendetta. Non
so come ma qui lo vennero a sapere e per Smoliza si rivelò decisamente
conveniente la decisione di cambiare aria. Che fine abbia poi fatto non si è
mai saputo con certezza, forse è rientrato a Pola.”
Anche Carlo Costantini, che a quel tempo era dirigente della Gioventù di Azione Cattolica di Alatri, ricorda qualcosa degli atleti ungheresi internati nel Campo Le Fraschette; in particolare di un giocatore di calcio di cui ricorda solo il nome, Vig, al quale chiese di seguire la squadretta di calcio dell’Associazione.
Vig, ricorda Costantini, accettò con entusiasmo pur sapendo che il compenso che saltuariamente gli poteva passare l’Associazione era veramente piccolo. Si presentava puntualmente sull’Acropoli, dove si svolgevano gli allenamenti all’appuntamento con i ragazzi e pur conoscendo solo pochissime parole di italiano riusciva a guidarli con la sua esperieza e la sua classe.
dal libro "le Fraschette di Alatri da campo di concentramento a centro raccolta rifugiati e profughi" di Costantini e Figliozzi
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