Pagine

martedì 31 marzo 2020




2 - LA STORIA DEL CAMPO

 "LE FRASCHETTE " di Alatri

La costruzione del Campo


Archivio di Stato di Frosinone fondo Genio Civile, Opere pubbliche, b.n.170.


Il 18 dicembre 1941, il sottosegretario all’Interno Guido Buffarini-Guidi, autorizzò il Prefetto di Frosinone a provvedere alla fornitura dei servizi indispensabili per la costruzione del campo. Per portare acqua a Le Fraschette, fu stipulato con la ditta Francesco Renzetti un contratto di cottimo fiduciario per i lavori di costruzione dell’acquedotto derivato da quello di Capofiume. I lavori vennero eseguiti sotto la direzione del Genio Civile.


 





In quei primi mesi del 1942 l’Ispettorato di Guerra  chiese di costruire a Fraschette una colonia agricola su una superficie di circa 15 ettari. Ad una ricognizione eseguita in loco dall’Ispettorato provinciale dell’Agricoltura, il terreno disponibile per la colonia poteva avere una consistenza di 60/70 ettari.











Il 7 maggio 1942, presso la Prefettura di Roma, ufficiale rogante il comm. avv. Salvatore Fiaccamento, fu stipulato un contratto tra l’Ispettorato dei Servizi di Guerra e la Società Legnami Pasotti, per la costruzione di un villaggio di accantonamento per internati in località “Fraschetti” del Comune di Alatri. Come si legge nel documento, si pensò di costruire 15 baracche dormitorio, 5 baracche refettorio, 1 baracca infermeria, 1 edificio cucina e magazzino viveri, 2 edifici gruppo latrine, docce, lavabi, 5 baracche magazzino, 1 cinematografo, 1 biblioteca, 1 cappella religiosa, 2 baracche normali per il Comando del corpo di guardia, 4 baracche normali per la truppa, 1 baracca cucina, 2 edifici magazzino per rimessa automezzi e autopompe, 4 baracche per quartiere Ufficiali.








Tutto il Villaggio sarà completo di arredamento comprendente: 2.500 letti biposto, 2.000 letti monoposto, 1.000 armadi biposto, 1.250 armadi a 4 posti, 675 tavoli per refettorio, 1.750 panche”. Per l’intera fornitura fu pattuita la somma di £.33.051.763,75. Gli otto lotti dovevano essere completamente realizzati in tre mesi e consegnati entro il 31 luglio 1942. Ciò a sottolineare l’urgenza di far entrare in funzione il campo.



Il 21 settembre 1942 il dott. Camillo Santamaria-Nicolini effettuò il passaggio di consegne della struttura al nuovo Direttore del Campo, dott. Giovanni Fantusati, Ispettore Generale di Pubblica Sicurezza. Fu eseguita una minuziosa ricognizione dei beni mobili ed immobili del campo e stilata una relazione finale sullo stato delle pratiche in atto.  Il passaggio di consegne avvenne pochi giorni prima dell’entrata in funzione del campo con l’arrivo dei primi gruppi di civili ad esso    destinati.






Grazie alla dott.ssa Michela Micocci e all' avv. Remp Costantini per le immagini delle baracche della Pasotti legnami 







Con preghiera di citare la fonte in caso di utilizzazione del testo

domenica 29 marzo 2020


Due misteriosi kirghisi 
piovuti dalla steppa a Fraschette


Da "Il Messaggero di Roma" del 25 gennaio 1950 la storia surreale, anche un po' comica nella quale, alla fine, i due protagonisti fanno anche un po' tenerezza.

L'articolo, a firma di Flora Antonioni, è stato casualmente trovato da Rolando Mignini durante alcune ricerche nel suo archivio storico.
A lui va un grazie per averlo condiviso in questo Blog, e un altro grazie va a Miriam Minnucci per la pazienza che ha avuto nel trascriverlo.








Il Messaggero di Roma
25 gennaio 1950
(Pagina 3)



L’INCREDIBILE AVVENTURA DEGLI ULTIMI INTERNATI

Due misteriosi kirghisi piovuti dalla steppa a Fraschette

Sparando contro tutti e al fianco di tutti, su qualsiasi fronte, girarono mezzo mondo ed alla fine non sapevano chi aveva vinto la guerra – Seri grattacapi per un grande poliglotta



Fraschette, gennaio
Fraschette non è che un nome privo di qualsiasi grammaticità per la maggior parte della gente, un nome quasi civettuolo, che evoca un’idea di frescura e di grazia goldoniana, così come Alberobello fa pensare ad un balocco natalizio e Lipari ai viaggi omerici di Ulisse. Ma dietro l’ingannevole grazia di queste denominazioni geografiche, si nascondono gli ultimi campi di concentramento per profughi stranieri e «indesiderabili» in Italia. E se i campi di Lipari, Fossoli e Alberobello sono ormai scomparsi, Fraschette e Farfa restano ancora in piedi e ci resteranno fino al giorno in cui l’ultimo «sperduto di guerra» avrà ritrovate se stesso, cioè un nome attendibile, una casa, una patria e soprattutto il modo di vivere.
Certo non si può rischiare impunemente di immettere nella società individui di cui si conoscono spesso soltanto i connotati e che per una ragione o per l’altra non sono in grado di svelare a questa società né il proprio nome, né il proprio passato. Se fosse vera la leggenda secondo cui tutti gli ex – appartenenti alle S.S. tedesche portano tatuata su di un braccio la svastica nazista, in molti caso l’identificazione sarebbe facile: ma in realtà il contrassegno maledetto è rimasto impresso solo negli spiriti e non è facile scoprirlo, quando chi lo custodisce dentro di sé sia ben deciso ad occultarlo.

Non giudicare
Accade, perciò, che molti innocenti in condizioni di non poter dimostrare la propria identità, continuino a vivere internati insieme ad autentici criminali, soggetti alla stessa costrizione «sine die». In casi del genere è molto facile ingannarsi e ogni giudizio rischia di essere viziato: si prenda, ad esempio, quel signore egiziano, sedicente oculista, che vive al campo di Fraschette e che favoleggia di grandi ricchezze «bloccate» al suo paese. Ha una bella moglie (o per lo meno egli afferma trattarsi di sua moglie) che lo viene a trovare quasi ogni giorno, è persona di modi cortesi e di eccellente educazione, ma il suo passato è come una macchia d’inchiostro da cui non si riesce a desumere neppure una figura precisa. In attesa di una chiarificazione se ne sta lì, sempre garbato e sorridente, sempre compito.
Altri come lui sono passati per il campo, poi hanno ritrovato le vie per giungere a dimostrare di essere se stessi. Molti sono gli internati che siano le ricerche delle varie commissioni inviate dall’I.R.O., ma ce ne sono anche di quelli che non sanno proprio come fare per ritrovare una fisionomia giuridica.
Citiamo un caso fra migliaia, uno dei più paradossali che si siano mai registrati e al tempo stesso più dimostrativi: un giorno dal campo di Fossoli in via di liquidazione giunsero a Fraschette due strani tipi dall’apparenza ibrida, in divisa Alleata. A prima vista quei due potevano parere russi, probabilmente circassi o calmucchi, ma guardandoli bene si poteva anche pensare che fossero mongoli, o tibetani, o forse turchi, o magari indù, o anche malesi o indostani, insomma tutto, fuorché inglesi o americani.

Gli incomprensibili
I due che erano giunti senza nessuna identificazione, erano provvisti in compenso di barbe maestose, si muovevano con un certo imbarazzo, parlavano in una lingua che nessuno aveva mai udito fino ad allora. Interrogati in ben trentanove fra lingue e dialetti diversi, non ne trovarono una sola che somigliasse sia pure lontanamente al loro misterioso linguaggio e si limitarono a sorridere con umiltà, scuotendo il capo, quasi per scusarsi. Si capiva benissimo che erano sinceri e che il rammarico maggiore di non poter capire tormentava più loro che gli interpreti.
Per due anni vissero così, isolati e tranquilli, senza mai imparare una sola parola di una lingua che non fosse quel loro diabolico miscuglio di sillabe incomprensibili a tutti. Il comandante del campo, giunto ormai all’intima persuasione che quei due fossero i rappresentanti di una razza scomparsa o che addirittura fossero risaliti a galla su di un atollo corallifero dall’Atlantide sommersa, li teneva con ogni cura, come campioni da muse, preoccupato che uno dei due avesse a morire lasciando l’altro solo e incompreso sulla faccia della terra.
I due continuavano a parlottare fra loro, a mangiare, a dormire, a sorridere. Ogni tanto pareva che qualcosa li turbasse come un problema assillante e allora gesticolavano più che mai, mugolavano strane parole che avevan l’aria di interrogativi e che restavano naturalmente senza risposta.
Sul finire del 1948 giunse finalmente al campo, con una commissione incaricata di secernere fra i vari profughi indesiderabili quelli «eleggibili», il maggiore americano, Mauthmann, che è ritenuto uno dei più formidabili poliglotti del mondo. Venuto a conoscenza dello straordinario caso, il maggiore volle interrogare quei due e, scartate a priori le trentanove lingue già invano sperimentate, si provò a interrogare i due «stranieri» in una decina di lingue o, per meglio dire, di dialetti parlati nelle regioni comprese fra gli Urali e il deserto del Gobi.
Alla fine, come Dio volle, trovò la chiave di questo mistero linguistico: i due erano pastori nomadi provenienti dalla steppa del Kirghisi, la quale steppa dei Kirghisi è una vastissima depressione salata, grande tre volte l’Italia a dir poco, che si stende a sud della Siberia, stretta fra il Caucaso, l’Usbekistan e la Zungaria.
Paese, come si vede, quanto mai impopolare, abitato da poche migliaia di pastori nomadi di razza simile a quella dei primi abitatori del Pamir, detto anche «tetto del mondo».
Ricostruendo i fatti, venne in luce questa fantastica storia: nel lontano 1940 un gruppetto di russi in vena di esplorazioni era giunto nel paese dei Kirghisi e si era imbattuto nei nostri due amici, i quali se ne andavano bel bello a pascolare i loro armenti in piena libertà. Una cosa tira l’altra e – si sa come vanno le faccende in casi simili – i russi, pieni di zelo e ispirati da un senso di umana solidarietà, invitarono gli amici Kirghisi a portare i loro greggi a pascolare in Siberia. L’invito, fatto più a cenni che a parole, dato che nessuno dei due gruppi conosceva la lingua dell’altro, dovette essere proprio commovente, tanto che i due pastori compiacenti spinsero il bestiame così in su da ritrovarsi in Russia, dopo aver fatto un bel giretto a piedi in Siberia.

Sotto a sparare!
Neanche a farlo apposta, appena giunti loro (il bestiame s’era fermato nei pressi della Transiberiana), eccoti che scoppia la guerra. Sempre compiacenti, anche se restii ad imparare le lingue, i due Kirghisi si arruolano nell’esercito rosso e ignorano i motivi della guerra che stanno combattendo, si mettono a sparare allegramente a fianco dei loro protettori. Spara tu che sparo anch’io, arrivano a Stalingrado. Qui succede un tafferuglio, un mezzo finimondo, i morti e le sparatorie si sprecano addirittura e nella grande confusione i kirghisi, che non hanno troppa competenza neppure in fatto di divise militari e che non distinguono un generale russo da un caporale italiano, si trovano di punto in bianco a sparare dalla parte degli italiani contr, i russi.
Gli italiani, visto l’impegno dei due, si convincono di aver a che fare con due «rossi» convertiti e cambiano la divisa ai due kirghisi, i quali così travestiti da marmittoni nostrani, continuano a sparare contro i russi e retrocedono fino al Don, dove finiscono sbadatamente in mezzo ai tedeschi. A loro volta i tedeschi, fieri d’aver con sé due ex rossi travestiti da italiani, li travestono da tedeschi. Sempre sparando, i due neo-tedeschi si ritrovano a Berlino, dove continuano a prodigarsi, fedelmente per la causa dei nazi, finché un giorno arriva altra gente contro cui bisogna sparare.
I due kirghisi, confusionari come sempre, si ritrovano poi, non si sa come, mescolati agli Alleati a sparare contro i tedeschi con immutato impegno. In premio di tanto zelo gli Alleati offrono loro divise alleate: figurarsi, due tedeschi che sparano a quel modo contro i loro connazionali, non possono che essere degli antinazisti feroci!

“Chi la vinse?”
Un bel giorno la guerra finisce e i nostri due kirghisi, che in tutto questo tempo non hanno fatto altro che sparare, retrocedere e cambiare divisa, senza mai subire una sola sgraffiatura e che non hanno mai scambiato una parola con nessuno, si trovano finalmente a riposo. A questo punto sorge il problema: chi sono veramente questi due?
Interrogati, non sanno rispondere: si dimenano, ridacchiano, scuotono il capo avviliti e niente più. Persuasi di avere a che fare con due furbacchioni di criminali doppio-giochisti, gli alleati pensano bene di metterli in un campo di concentramento in Germania, poi, li spediscono in Austria, infine li scaricano in Italia, a Fossoli. Fossoli si vuota a poco a poco, bene o male ciascuno viene identificato, classificato, sia pure in modo approssimativo, ma quei due restano un mistero vivente e solo l’arrivo del maggiore americano dopo quattro anni scioglie l’enigma. Ma i due kirghisi non sembrano soddisfatti, confabulano a bassa voce, tra di loro, e infine il più anziano dei due prende la parola «Vorremmo chiedere un’informazione, signor maggiore», «Dire pure», risponde il maggiore gentilmente.
«Ecco, signor maggiore, si tratta di questo: in tanti anni di attesa e dopo aver tanto combattuto per paesi di cui non conoscevamo neppure il nome, noi siamo stati sempre tormentati da un solo desiderio e più volte abbiamo tentato di farlo sapere a chi ci stava vicino, ma invano. Alla fine ci eravamo rassegnati a morire senza conoscere ciò che volevamo conoscere. Ci dica, signor maggiore, si può sapere chi ha vinto la guerra?».


Flora Antonioni