Due misteriosi kirghisi
piovuti dalla steppa a Fraschette
Da "Il Messaggero di Roma" del 25 gennaio 1950 la
storia surreale, anche un po' comica nella quale, alla fine, i due protagonisti
fanno anche un po' tenerezza.
L'articolo, a firma di Flora Antonioni, è stato
casualmente trovato da Rolando Mignini durante alcune ricerche nel suo
archivio storico.
A lui va un grazie per averlo condiviso in questo Blog, e un
altro grazie va a Miriam Minnucci per la pazienza che ha avuto nel trascriverlo.
Il
Messaggero di Roma
25 gennaio 1950
(Pagina 3)
L’INCREDIBILE AVVENTURA DEGLI ULTIMI INTERNATI
Due misteriosi kirghisi
piovuti dalla steppa a Fraschette
Sparando contro tutti e al fianco di tutti,
su qualsiasi fronte, girarono mezzo mondo ed alla fine non sapevano chi aveva
vinto la guerra – Seri grattacapi per un grande
poliglotta
Fraschette, gennaio
Fraschette non è che un nome privo di qualsiasi
grammaticità per la maggior parte della gente, un nome quasi civettuolo, che
evoca un’idea di frescura e di grazia goldoniana, così come Alberobello fa
pensare ad un balocco natalizio e Lipari ai viaggi omerici di Ulisse. Ma dietro
l’ingannevole grazia di queste denominazioni geografiche, si nascondono gli
ultimi campi di concentramento per profughi stranieri e «indesiderabili» in
Italia. E se i campi di Lipari, Fossoli e Alberobello sono ormai scomparsi,
Fraschette e Farfa restano ancora in piedi e ci resteranno fino al giorno in
cui l’ultimo «sperduto di guerra» avrà ritrovate se stesso, cioè un nome
attendibile, una casa, una patria e soprattutto il modo di vivere.
Certo non si può rischiare impunemente di
immettere nella società individui di cui si conoscono spesso soltanto i
connotati e che per una ragione o per l’altra non sono in grado di svelare a
questa società né il proprio nome, né il proprio passato. Se fosse vera la
leggenda secondo cui tutti gli ex – appartenenti alle S.S. tedesche portano
tatuata su di un braccio la svastica nazista, in molti caso l’identificazione
sarebbe facile: ma in realtà il contrassegno maledetto è rimasto impresso solo
negli spiriti e non è facile scoprirlo, quando chi lo custodisce dentro di sé
sia ben deciso ad occultarlo.
Non giudicare
Accade, perciò, che molti innocenti in condizioni
di non poter dimostrare la propria identità, continuino a vivere internati
insieme ad autentici criminali, soggetti alla stessa costrizione «sine die». In
casi del genere è molto facile ingannarsi e ogni giudizio rischia di essere
viziato: si prenda, ad esempio, quel signore egiziano, sedicente oculista, che
vive al campo di Fraschette e che favoleggia di grandi ricchezze «bloccate» al
suo paese. Ha una bella moglie (o per lo meno egli afferma trattarsi di sua
moglie) che lo viene a trovare quasi ogni giorno, è persona di modi cortesi e
di eccellente educazione, ma il suo passato è come una macchia d’inchiostro da
cui non si riesce a desumere neppure una figura precisa. In attesa di una
chiarificazione se ne sta lì, sempre garbato e sorridente, sempre compito.
Altri come lui sono passati per il campo, poi
hanno ritrovato le vie per giungere a dimostrare di essere se stessi. Molti
sono gli internati che siano le ricerche delle varie commissioni inviate
dall’I.R.O., ma ce ne sono anche di quelli che non sanno proprio come fare per
ritrovare una fisionomia giuridica.
Citiamo un caso fra migliaia, uno dei più
paradossali che si siano mai registrati e al tempo stesso più dimostrativi: un
giorno dal campo di Fossoli in via di liquidazione giunsero a Fraschette due
strani tipi dall’apparenza ibrida, in divisa Alleata. A prima vista quei due
potevano parere russi, probabilmente circassi o calmucchi, ma guardandoli bene
si poteva anche pensare che fossero mongoli, o tibetani, o forse turchi, o
magari indù, o anche malesi o indostani, insomma tutto, fuorché inglesi o
americani.
Gli incomprensibili
I due che erano giunti senza nessuna
identificazione, erano provvisti in compenso di barbe maestose, si muovevano
con un certo imbarazzo, parlavano in una lingua che nessuno aveva mai udito
fino ad allora. Interrogati in ben trentanove fra lingue e dialetti diversi,
non ne trovarono una sola che somigliasse sia pure lontanamente al loro
misterioso linguaggio e si limitarono a sorridere con umiltà, scuotendo il
capo, quasi per scusarsi. Si capiva benissimo che erano sinceri e che il
rammarico maggiore di non poter capire tormentava più loro che gli interpreti.
Per due anni vissero così, isolati e tranquilli,
senza mai imparare una sola parola di una lingua che non fosse quel loro
diabolico miscuglio di sillabe incomprensibili a tutti. Il comandante del
campo, giunto ormai all’intima persuasione che quei due fossero i
rappresentanti di una razza scomparsa o che addirittura fossero risaliti a
galla su di un atollo corallifero dall’Atlantide sommersa, li teneva con ogni
cura, come campioni da muse, preoccupato che uno dei due avesse a morire
lasciando l’altro solo e incompreso sulla faccia della terra.
I due continuavano a parlottare fra loro, a
mangiare, a dormire, a sorridere. Ogni tanto pareva che qualcosa li turbasse
come un problema assillante e allora gesticolavano più che mai, mugolavano
strane parole che avevan l’aria di interrogativi e che restavano naturalmente
senza risposta.
Sul finire del 1948 giunse finalmente al campo,
con una commissione incaricata di secernere fra i vari profughi indesiderabili
quelli «eleggibili», il maggiore americano, Mauthmann, che è ritenuto uno dei
più formidabili poliglotti del mondo. Venuto a conoscenza dello straordinario
caso, il maggiore volle interrogare quei due e, scartate a priori le trentanove
lingue già invano sperimentate, si provò a interrogare i due «stranieri» in una
decina di lingue o, per meglio dire, di dialetti parlati nelle regioni comprese
fra gli Urali e il deserto del Gobi.
Alla fine, come Dio volle, trovò la chiave di
questo mistero linguistico: i due erano pastori nomadi provenienti dalla steppa
del Kirghisi, la quale steppa dei Kirghisi è una vastissima depressione salata,
grande tre volte l’Italia a dir poco, che si stende a sud della Siberia,
stretta fra il Caucaso, l’Usbekistan e la Zungaria.
Paese, come si vede, quanto mai impopolare,
abitato da poche migliaia di pastori nomadi di razza simile a quella dei primi
abitatori del Pamir, detto anche «tetto del mondo».
Ricostruendo i fatti, venne in luce questa
fantastica storia: nel lontano 1940 un gruppetto di russi in vena di
esplorazioni era giunto nel paese dei Kirghisi e si era imbattuto nei nostri
due amici, i quali se ne andavano bel bello a pascolare i loro armenti in piena
libertà. Una cosa tira l’altra e – si sa come vanno le faccende in casi simili
– i russi, pieni di zelo e ispirati da un senso di umana solidarietà,
invitarono gli amici Kirghisi a portare i loro greggi a pascolare in Siberia.
L’invito, fatto più a cenni che a parole, dato che nessuno dei due gruppi
conosceva la lingua dell’altro, dovette essere proprio commovente, tanto che i
due pastori compiacenti spinsero il bestiame così in su da ritrovarsi in
Russia, dopo aver fatto un bel giretto a piedi in Siberia.
Sotto a sparare!
Neanche a farlo apposta, appena giunti loro (il
bestiame s’era fermato nei pressi della Transiberiana), eccoti che scoppia la
guerra. Sempre compiacenti, anche se restii ad imparare le lingue, i due
Kirghisi si arruolano nell’esercito rosso e ignorano i motivi della guerra che
stanno combattendo, si mettono a sparare allegramente a fianco dei loro
protettori. Spara tu che sparo anch’io, arrivano a Stalingrado. Qui succede un
tafferuglio, un mezzo finimondo, i morti e le sparatorie si sprecano
addirittura e nella grande confusione i kirghisi, che non hanno troppa
competenza neppure in fatto di divise militari e che non distinguono un
generale russo da un caporale italiano, si trovano di punto in bianco a sparare
dalla parte degli italiani contr, i russi.
Gli italiani, visto l’impegno dei due, si
convincono di aver a che fare con due «rossi» convertiti e cambiano la divisa
ai due kirghisi, i quali così travestiti da marmittoni nostrani, continuano a
sparare contro i russi e retrocedono fino al Don, dove finiscono sbadatamente
in mezzo ai tedeschi. A loro volta i tedeschi, fieri d’aver con sé due ex rossi
travestiti da italiani, li travestono da tedeschi. Sempre sparando, i due
neo-tedeschi si ritrovano a Berlino, dove continuano a prodigarsi, fedelmente
per la causa dei nazi, finché un giorno arriva altra gente contro cui bisogna
sparare.
I due kirghisi, confusionari come sempre, si
ritrovano poi, non si sa come, mescolati agli Alleati a sparare contro i
tedeschi con immutato impegno. In premio di tanto zelo gli Alleati offrono loro
divise alleate: figurarsi, due tedeschi che sparano a quel modo contro i loro
connazionali, non possono che essere degli antinazisti feroci!
“Chi la vinse?”
Un bel giorno la guerra finisce e i nostri due
kirghisi, che in tutto questo tempo non hanno fatto altro che sparare,
retrocedere e cambiare divisa, senza mai subire una sola sgraffiatura e che non
hanno mai scambiato una parola con nessuno, si trovano finalmente a riposo. A
questo punto sorge il problema: chi sono veramente questi due?
Interrogati, non sanno rispondere: si dimenano,
ridacchiano, scuotono il capo avviliti e niente più. Persuasi di avere a che
fare con due furbacchioni di criminali doppio-giochisti, gli alleati pensano
bene di metterli in un campo di concentramento in Germania, poi, li spediscono
in Austria, infine li scaricano in Italia, a Fossoli. Fossoli si vuota a poco a
poco, bene o male ciascuno viene identificato, classificato, sia pure in modo
approssimativo, ma quei due restano un mistero vivente e solo l’arrivo del
maggiore americano dopo quattro anni scioglie l’enigma. Ma i due kirghisi non
sembrano soddisfatti, confabulano a bassa voce, tra di loro, e infine il più
anziano dei due prende la parola «Vorremmo chiedere un’informazione, signor
maggiore», «Dire pure», risponde il maggiore gentilmente.
«Ecco, signor maggiore, si tratta di questo: in
tanti anni di attesa e dopo aver tanto combattuto per paesi di cui non
conoscevamo neppure il nome, noi siamo stati sempre tormentati da un solo
desiderio e più volte abbiamo tentato di farlo sapere a chi ci stava vicino, ma
invano. Alla fine ci eravamo rassegnati a morire senza conoscere ciò che
volevamo conoscere. Ci dica, signor maggiore, si può sapere chi ha vinto la
guerra?».
Flora Antonioni
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