Storie
di profughi,
di richiedenti asilo....
1946- 1960
i ricordi di Ferruccio Giurini tratti da http://www.tusciaweb.eu/2020/03/ho-attraversato-ladriatico-a-remi-nel-1949-lasciavo-zara-dopo-larrivo-di-tito/
<<Sono scappato. Mi sono fatto a remi tutto l’Adriatico. Una traversata durata tre giorni e tre notti, dal 26 al 28 agosto del 1949. Avevo 17 anni, ....decidemmo di attraversare l’Adriatico in cinque su una barchetta. ... Ricordo che la sera prima della traversata ero in camera e stavo preparando qualcosa da portare via. Mentre infilavo una camicia e dei calzini in una federa di cuscino è entrato mio padre. Lui non sapeva nulla, ma in quel momento mi è sembrato di fargli un torto e allora gli ho confidato la scelta di partire. Inizialmente è rimasto in silenzio e poi ha detto: ‘Certo che con quella barchetta lì…’. ...... Sulla nostra rotta abbiamo visto una nave e gli abbiamo fatto cenno. Era un’imbarcazione americana e l’equipaggio non ci ha fatto salire a bordo. Ci hanno dato dell’acqua, che probabilmente ci ha salvato, e siamo ripartiti. A mille metri dalla costa ci ha soccorso un peschereccio. Il capitano ha ascoltato la nostra storia e ci ha dato da mangiare. Poi ci ha consegnato alle autorità e noi eravamo d’accordo. Non avevamo fatto nulla di male”.
“La polizia ci ha portato in carcere , siamo stati interrogati e ognuno ha preso la sua strada. Io sono stato mandato alle Fraschette di Alatri in provincia di Frosinone. Era un vero e proprio campo di concentramento. Mi hanno dato subìto la matricola: 4099. Mi hanno detto: ‘Lei sarà chiamato con questo numero’. Lì c’erano tutti gli esuli. Era un vero e proprio campo di concentramento. Ti chiamavano la sera con la matricola per fare l’appello, ti chiudevano a chiave e il mattino dopo ti ricontavano. Dormivamo in un camerone enorme e le brande erano in legno. Eravamo circa 600 persone. Parlavamo un po’ tutte le lingue e ci capivamo. Due volte alla settimana veniva una commissione di esperti e facevano dei colloqui per capire come sistemarci. Sono rimasto da agosto fino a Natale”.>>
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“L’Avanti!
“ 31 agosto 54
Troppe code davanti
agli sportelli
Arrestato al Banco Ambrosiano un borseggiatore
giù di esercizio
E’ un professionista
di “colpi” conosciuto dalle questure di mezza Italia
Paul Levit
dì Misu ventottenne, altrimenti noto come Rudolf Braundestehi, borseggiatore professionista, è
stato arrestato per l'ennesima volta ieri mattina in via XX Settembre. Il
Levit, apolide, nativo di Bacan (Romania), ha quel che si dice un passato:
sempre per borseggi vari è stato arrestato dal Commissariato Moncenisio, dal
Commissariato Castello per aver dato falso nome e ancora dalla Questura dì
Torino poi da quella di Savona nel 1951 per furto e associazione a delinquere;
infine da quella di Padova per borseggio e da quella di Milano per maldestro tentativo
nella stessa. Ieri mattina il Levit ha fatto fiasco un'altra volta e una altra
volta è tornato al fresco. La vittima, che l'ha scampata per poco, è Placido
Piana di 52 anni, nativo di Refrancore e abitante in via Monte Alberghiero 2.
Il borseggiatore, che alloggia al campo profughi di Fraschette d'Alatri in
provincia dì Frosinone, era venuto a Torino per portare a termine un colpetto e
ripartirne in tutta fretta. Si recò a una banca che_forse era già stata teatro
di altri suoi colpi rimasti ignorati e ha cominciato col fare la coda davanti
agli sportèlli in attesa dell'occasione propizia. Forse un poco giù d'esercizio
non sì decideva a scegliere la vittima: probabilmente un (presentimento che lo
tratteneva e più volte si mise In coda cambiando sportello tanto da destare i
sospetti di un agente di servizio che prese a tenerlo d’occhio
.
Improvvisamente l'agente vide il Levit che con troppa fretta cercava di allontanarsi alla chetichella. Allora lo fermò, ma il
Levit tentò di fuggire. La cosa non gli riuscì e prima che giungesse la camionetta
della celere chiamata nel frattempo era riacciuffato. Al Commissariato Monviso
è stato trovato in possesso di una considerevole somma, di cui non sapeva
spiegare la provenienza. Poco dopo si riusciva ad accertare che il derubato era
il signor Piana, che è stato così fortunato da ritornare in possesso del denaro
rubatogli quando ancora non si era accorto d'essere stato vittima dì un furto.
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Nicola Zivis
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“ L’Avanti ! ” 2 novembre 1952
Strano viaggio di nozze in un
vagone piombato
Così,senza cibo e senza acqua per sette giorni, due fuggiaschi dalla
Jugoslavia sono giunti in Italia
CERVIGNANO, 1. — Un singolare viaggio di nozze, chiusi per sette giorni senza viveri In un vagone
piombato, hanno fatto due giovani fiumani: tali Janis Dragic, di 23 anni, e Valentin
Sparavec, di 24, i quali avevano pensato di far coincidere tale viaggio con
una fuga dalla Jugoslavia.
Per farla franca alla milizia confinaria titina, i due sposini, la
sera del 23 scorso, dopo u n a minuziosa preparazione, riuscirono a nascondersi
in un vagone merci carico di legname e
diretto in Italia, a una società di Torviscosa. Il vagone venne regolarmente chiuso e piombato
dai doganieri, che non si accorsero di
nulla. E la coppia iniziò il suo straordinario viaggio, che riteneva non
dovesse durare più di un paio di giorni: per la quale ragione non aveva pensato
a munirsi di molto cibo. Invece, per una lunga digressione sofferta dal vagone,
i poveretti hanno dovuto rimanere rinchiusi nel
carro per circa una settimana, senza viveri e senza acqua. Il loro
travagliato viaggio è finito soltanto ieri alla stazione di Cervignano.Quando due guardie di finanza
hanno spiombato il vagone, hanno avuto la sorpresa di trovare, accasciati sul
legname, sfiniti ed affamati, i due sposini. Rifocillati e curati, hanno
narrato la loro disavventura. Saranno inoltrati, dopo qualche giorno di
permanenza a Cervignano, al campo profughi delle « Fraschette ».
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Eligio Bernazza
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Si procede con lentezza a Fraschette di Alatri
A Fraschette di Alatri esiste un campo di raccolta per i profughi stranieri e naturalmente molti giuliani
(quelli venuti via dalle loro terre senza il placet di Tito e nei modi più avventurosi--con barche o
attraverso il filo spinato rischiando più di tutti e perdendo più di tutti) .
È logico che la polizia italiana tenga sotto sorveglianza polacchi, russi e via di seguito; e logico pure che
controlli quei giuliani e dalmati che arrivano in questa parte dell'Italia senza avere le carte in regola.
Ma tra la raccolta e di concentramento passa una bella differenza. Anche se quel campo e detto di
raccolta in sostanza non lo è. Nessuno può avvicinare i ricoverati neppure la stampa; mentre per gli
stranieri quelli veri si arriva a ben incomprensibili agevolazioni.
Controllare va bene tenere sotto sorveglianza pure ottimo; ma perché a questi disgraziati non è data la
facoltà di mettersi in contatto con quanti riconoscono e solo in Italia; perché la polizia non chiede
informazioni ai comitati giuliani; perché il disbrigo delle pratiche procede tanto lentamente?.eppure molti
di questi hanno optato regolarmente per l'Italia.
Sono cittadini italiani di fatto e di diritto.
Molti sono fuggiti dalla Jugoslavia perché le loro domande d'opzione sono state respinte da quelle
autorità che da loro non rimaneva altra via che la illegalità per poter godere della libertà e vivere nella
loro patria; molti hanno regolarmente optato in Italia; altri hanno optato in Jugoslavia ma non sono in
grado di dimostrare il fatto con documenti. Perché la polizia non lavora? .Ci sono tante lire per
conoscere la verità. Due di questi: Cosich Giovanni e Dugina Elio (già marinaio sulla Vittorio Veneto)
sono stati mandati in missione in Jugoslavia dagli americani ancora durante la guerra e quali partigiani;
da quel paradiso sono potuti fuggire e il nero non hanno trovato qui molta differenza. Altri come Murgich
Giuseppe ad esempio sono stati valorosi combattenti in grigio verde. Nella maggioranza si tratta di
italiani della provincia di Gorizia molti poi sono di fiume delle isole della Dalmazia.
Se questo trattamento dipende dalla direzione del campo sarà bene che il governo intervenga; se
esistono superiori disposizioni sarà opportuno allora che siano compiuti passi direttamente in alto.
È ingiusto che nostri fratelli - ripetiamo che la polizia ha ragione di andare cauta - abbiano un simile
trattamento. E se sarà necessario ritorneremo più diffusamente sull'argomento
dall'Arena di Pola del 30 marzo 1949
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Le peripezie di un profugo istriano
Ho letto con interesse le vicende di Antonio
Rebaudengo che, negli
anni dell'ultima guerra mondiale, fu arrestato
e internato in campi di
detenzione con altri 700 italocanadesi. Vorrei
anch'io raccontare la mia
storia, amara e in parte simile alla sua. Sono
nato a Rovigno, un paese
dell'Istria, e sono rimasto cittadino italiano
fino al 1945, divenendo forzatamente
"jugoslavo" dopo il passaggio
dell'lstria alla Jugoslavia.
«Fui, però, subito dichiarato nemico del
popolo perché non accettai l'ideologia
comunista. Era come una condanna a morte e
quindi, il 22
febbraio 1949, scappai con altri tre compagni
da Rovigno con una barca
di quattro metri. Avevo 23 anni, e quindi il
coraggio d'intraprendere
quel rischio. Ci raccolse, in mezzo
all'Adriatico, un motopeschereccio
italiano, e una volta sbarcati raggiungemmo il
campo profughi di Udine.
La nostra triste disavventura incominciò
proprio da quel campo. Ci
fermarono degli agenti e, nonostante la
presentazione del nostro caso e
la domanda di spiegare al direttore del
campo-profughi la nostra situazione,
ci arrestarono come dei criminali. Scrissi
subito a mio fratello,
padre Emilio Zivis, francescano conventuale
residente allora a Padova,
il quale, giunto subito a Udine non ebbe il
permesso di vedermi. Dopo
nove giorni, ci trasferirono a Venezia,
ammanettati e in carri bestiame,
e ancora una volta non permisero a mio
fratello frate d'incontrarmi. Seguirono
45 giorni di trasferimenti da una prigione
all'altra: da Venezia
a Bologna, Firenze, Roma, fino ad Alatri, dove finalmente potei fare
una doccia! Dalla Jugoslavia mi arrivò la
notizia che avevano arrestato
mia madre, due sorelle e un fratello per
rappresaglia, e che erano stati
condannati a tre mesi di lavori forzati.
Questo era il comunismo! «Trascorsi
sette anni e sette mesi di prigione,
conosciuto come "numero
3688", sbattuto da un campo profughi
all'altro, senza il riconoscimento
della mia particolare situazione nonostante le
mie richieste e gli scioperi
della fame per il pessimo trattamento. Quando
uscii di prigione,
con la qualifica di "apolide" pesavo
45 chili. Negli ultimi due anni, mi
permisero di visitare mia madre, che nel
frattempo era stata trasferita
nel campo profughi italiano di Latina. Ma
anche in quell'occasione, dovevo
sempre presentarmi all'Ufficio Stranieri. Si
era interessato del
mio caso anche il Generale dell'Ordine dei
Francescani Conventuali,
che presentò la mia domanda di riacquisto
della cittadinanza italiana;
ma quel prezioso documento che mi avrebbe salvato
da tante umiliazioni,
arrivò otto anni dopo, quando non ne avevo più
la necessità.
Uscito, infatti, dalla prigione, emigrai negli
Stati Uniti dove, trascorsi
cinque anni di residenza, il giudice, dopo che
avevo giurato d'osservare
le leggi del Paese, mi diede la mano
dicendomi: «Sei cittadino
americano!». Un gesto e un riconoscimento che
contrastano con la perdita
di libertà e l'internamento in un campo di
detenzione subiti, negli
anni dell'ultima guerra, dall'italocanadese
Antonio Rebaudengo, e dalle
amare incomprensioni e crudeli trattamenti che
io ho sofferto in Italia
in anni di pace».
NICOLA Zivis
Dall’Arena di Pola del 30 novembre 2006
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“Le Fraschette” 18 agosto 1948
Dimenticati in questo posto, ti mandiamo i saluti dal
profondo del cuore, anche a tutti quelli che non mancano di attenzioni verso di
noi.
Vi bacio con affetto
Hysni Sharra
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Isidoro Marsan, profugo borgherizzano italiano e
campione di pallacanestro in casa e a Cantù
Si ringrazia per la foto Massimiliano Fabbri
Isidoro Marsan è alto e magro. Proprio come veniva indicato cinquant’anni fa, quando giocò a pallacanestro, ad alti livelli, in quella Zara postbellica che era stata la culla del basket in Jugoslavia e poi a Cantù, luogo sacro per i cestisti italiani e che tale è diventato proprio con l’avvento di Marsan. Lo conferma anche il sito ufficiale della “Pallacanestro Cantù” in cui si legge: “..con la riconquista della serie A nel ‘56, (con Marsan in panchina n.d.r.) si apre un capitolo nuovo per la storia del basket canturino: in società entra la famiglia Casella ...allenatore resta lo zaratino Marsan”
“Alto e magro”, nel caso di Marsan, erano aggettivi che diventavano metafora di uno che sotto canestro ci sapeva fare; erano complimenti, complimenti che valgono anche oggi per un signore di 83 anni, elegante e distinto, che non ha voluto mancare al recente Raduno dei Dalmati a Bellaria (Rimini). Ce lo ha indicato Walter Matulich, uno che pur vivendo tra le nebbie lombarde porta la Dalmazia ben stretta nel cuore. “Nel secondo dopoguerra”, ci ha raccontato Matulich, “Marsan si distinse come operatore sportivo - “ante litteram”. Atleta poliedrico, diede lustro, soprattutto, alla pallacanestro zaratina, nei ruoli sia di giocatore sia di giocatore-allenatore. Vi gettò le basi del basket moderno, allevò con cura amorevole, quasi paterna, una generazione ispirata di ragazzotti, destinati a far conoscere all’universo mondo il nome della città dalmata. Uno su tutti: Pino Gjergja, suo allievo prediletto. Fa tenerezza, oggi, vederli passeggiare insieme, in Calle Larga, a Zara, allievo e maestro, tessitori e testimoni di amicizia e solidarietà: incanto di passioni che dividono le angosce a metà”.
La convinzione che Isidoro Marsan sia certamente un personaggio da presentare ai nostri lettori, si è rafforzata quando Matulich ci ha raccontato altri dettagli: “Nel 1953, in tournée” a Vienna con la squadra, Marsan decise di non rientrare a Zara. Scelta alla quale lo indussero le “attenzioni” e le piacevolezze che il regime si piccava di ammannirgli. Agguantò allora l’Italia e vi dimorò per cinque anni. Eccelse, altra volta, nella duplice veste di giocatore ed allenatore. Visse ramingo e solitario, fra Pavia, Cantù e Bologna per sbarcare, infi - ne, in Australia, ove tuttora risiede. Uomo modesto, schivo, integerrimo, mai dimenticò o nascose quel che è stato ed è: - Borgherizzano ed Italiano”.
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Il 1953 è l’anno in cui si completa l’esodo degli italiani dall’Istria, dal Quarnero e dalla Dalmazia. Se ne va anche lei, ma in circostanze diverse.
Nell’agosto del 1953 gli americani organizzarono a Vienna un torneo di 4-5 squadre al quale, accanto ad altre compagini austriache, partecipavamo anche noi di Zara. Ad un certo punto, all’improvviso, mio fratello Benito e Antonio Gjergja mi comunicarono che non avevano intenzione di tornare. Io, anche se non ero contrario all’idea, rimasi senza parole. Poi proposi di rimandare il tutto al prossimo torneo al quale eravamo già stati invitati e che si doveva svolgere di lì a poco in Svizzera. Nel frattempo avremmo potuto parlarne con nostra madre e avere tutti un minimo di garanzia fi nanziaria, anche perché mia madre, dopo la prigionia causa l’anticomunismo, dipendeva dal mio stipendio. Loro non ne vollero sapere. In un bar incontrammo un tale di Bolzano che ci consigliò di rivolgerci ad un croato che a Vienna si occupava dei casi dei profughi. Vienna all’epoca era suddivisa in zone di controllo, ma di fatto era circondata dai russi. Con un’automobile ci accompagnarono in una villa fuori città, una specie di centro di raccolta profughi americano. Intanto la squadra non era rientrata a Zara, decisero invece di cercarci e si fermarono altri tre giorni. Il nostro caso era diventato notizia. In quella villa, non so bene per quali canali, era venuto a cercarci per conto degli jugoslavi un tale Horvat che riuscì addirittura a parlare con me, ma io feci fi nta di essere spagnolo. Si teneva comunque abbastanza distante, perché gli americani gli dissero che avevo una malattia infettiva. In quella villa rimanemmo una quindicina di giorni. Però la notte ci facevano dormire sempre in luoghi diversi, finché un giorno, con un piccolo aereo decollato proprio dalle rive del Danubio, ci trasferirono a Linz. Da Linz giungemmo nella piccola località di Asten dove c’era un campo per profughi dalla Jugoslavia. Lì mi sono trovato male, avevo paura perché c’erano tanti slavi e comunque non mi fi davo. Così sono andato via, prima a Salisburgo, poi a Innsbruck, dove ho acquistato un biglietto per Bolzano.
Così raggiunse l’Italia.
Non fu così semplice. Eravamo senza documenti. Ci fecero scendere al Brennero, prima del confine, camminammo arrampicandoci per più di 25 chilometri. Superato il valico e arrivati a Vipiteno i carabinieri ci prelevarono e ci condussero a Bolzano. Ci fecero fare tre giorni di prigione, interrogatori a non finire perché c’erano ancora in circolazione tanti profughi e ricercati tedeschi. Quando ci lasciarono, un carabiniere di Bolzano, al quale probabilmente facemmo pena, ci diede una lettera raccomandandoci di non aprirla prima di essere arrivati a Trento. Dentro c’erano tremila lire...
Vita molto dura nel campo profughi
Dove andaste?
Al campo profughi a Fraschette d’Alatri in provincia di Frosinone, dove in realtà c’erano due campi, il numero 1 e il numero due. Lì la vita era molto dura.
Come vi trattavano?
Non ci trattavano...
Quando ho conosciuto un Lussignano e un tale di Curzola mi sono sentito meglio. In campo ho incontrato anche Zaratini quali Giuseppe Marussich, che stava già al villaggio giuliano dalmata di Roma. Dopo due mesi di permanenza mi salvò la pallacanestro perché da Venezia e da Pavia mi chiesero di venire a giocare.
E suo fratello e Antonio Gjergja?
Se ne andarono in Cile.
E lei tra Venezia e Pavia scelse...
Pavia, perché lì c’era Tullio Rochlitzer che aveva giocato con me a Zara e perché a Pavia, al contrario di Venezia, mi avevano offerto pure un lavoro in fabbrica. Poi purtroppo non se ne fece niente per questioni di carte, cittadinanza o profuganza, non mi ricordo più. Così decisero di vendermi al Cantù.
http://www.anvgd.it/index.php?option=com_content&task=view&id=3514&Itemid=144
ISIDORO MARSAN
Nato nel 1925 a Zara, dove la sua famiglia, titolare di un negozio di generi alimentari, abitava in Borgo Erizzo.
(...)
Una biografia postbellica la sua, che per un po’ assunse anche i contorni della spy story. Avviato ad una promettente carriera nella squadra di pallacanestro della sua città, nel ‘53, durante una trasferta a Vienna e senza alcuna sua premeditazione, si trovò coinvolto nei progetti di fuga del fratello diciannovenne e di un suo amico coetaneo, militanti anch’essi nella formazione sportiva. Due ore prime della partenza per il rientro a Zara, usciti per fare un po’ di spesa, i ragazzi lo misero a parte delle loro intenzioni. Fra l’altro, non avevano alcuna intenzione di ottemperare ai quattro anni di leva nella Marina jugoslava. Vista la loro determinazione, Isidoro, che dall’alto dei suoi ventotto anni si sentiva responsabile dei due ragazzi, li seguì. Vennero presi in custodia dagli Americani che, contrariamente al parere degli Austriaci, li nascosero; di giorno in una villa, di notte in una caserma, fino alla partenza della loro ormai ex squadra. Seguì, con un piccolo aereo, il trasferimento a Linz in un campo profughi plurietnico. I giovani però credettero di intravvedere un delatore fra gli ospiti di una base jugoslava, esistente a sette chilometri dal loro comprensorio; ragion per cui presero il treno e la via della fuga verso l’Italia. Si diressero al Brennero, area che a Marsan, per i suoi trascorsi di studio, era familiare. Sprovvisti di passaporto però, a 40 chilometri dal confine furono fatti scendere da un controllore. A piedi raggiunsero Vipiteno. Fermati dai carabinieri e riportati al valico confinario, furono trattenuti due giorni per accertamenti. Dopo un altro interrogatorio a Bolzano, vennero mandati al campo profughi di Fraschette di Alatri, in provincia di Frosinone. Prima della partenza, un’anima buona donò loro tremila lire. Praticamente un girone infernale che raccoglieva tutti quelli che nessuno al mondo voleva fu la sgradevole ed angosciosa sistemazione per le prime settimane. Ne emersero con il trasferimento alla normale vivibilità del campo numero 2. Il fratello, dopo qualche mese, emigrò alla volta del Cile. Con lui anche l’altro ragazzo, compagno della movimentata avventura. (...)
da "Protagonisti senza protagonismo - la storia nella memoria di Giuliani, Istriani, Fiumani e Dalmati nel mondo" di Viviana Facchinetti
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