Pagine

martedì 10 aprile 2018



Vita al Campo 
da FORM KRAGUJEVAC TO AMERICA a personal journey – MRM Winston-Salem, NC 2007  di Milorad R. Margitić 


Milorad R. Margitić, giovane musicista sloveno, sogna un mondo diverso da quello jugoslavo.
Vuole andare in America, ma oltrepassare i confini del proprio paese d’origine sembra cosa impossibile.
La musica è la sua salvezza: il tour con il gruppo musicale di cui fa parte gli regala la possibilità di fuggire, ma il passaporto con cui viaggia è collettivo. È così che, una volta scappato dalla Jugoslavia è diventato clandestino, un’apolide in cerca di asilo politico.



Tutto ha inizio nel febbraio del 1955, Milorad si trova in Svizzera con il suo gruppo, il desiderio di darsi alla fuga è forte, ma lo è ancor più il timore che un paese così “razzista” gli possa negare asilo, rispedendolo in Jugoslavia. Quindi, giunto a Milano, decide di scappare e di abbandonare il gruppo per andare a Roma e raggiungere una coppia italo-ungherese incontrata durante il viaggio. La donna lo accompagna alla stazione di polizia per di richiedere asilo politico: è qui che gli viene assegnata come destinazione il campo Le Fraschette.

Durante il viaggio in treno verso Alatri si sorprende nel vedere che gli italiani vivono in delle grotte scavate nei fianchi delle colline. Lo assale un timore: se lo Stato italiano lasciava che gli italiani stessi vivessero nelle grotte, quale trattamento avrebbe potuto riservare a un rifugiato politico straniero?
Il viaggio è lunghissimo e dalla stazione, lui e un altro ungherese, devono proseguire a piedi per raggiungere Le Fraschette.

Milorad R. Margitić spiega che nel dopoguerra, poiché esisteva un altissimo tasso di disoccupazione, ai rifugiati non veniva permesso di lavorare; è per questo che erano vincolati a stare in questi campi, finanziati e mantenuti dagli americani.
Spiega inoltre, che Fraschette era situato in Ciociaria, nome che viene da “ciocia”, la calzatura locale utilizzata dai contadini.
Il campo Le Fraschette era piuttosto grande, composto da due enormi baracche divise in quattro sezioni, più altre baracche di dimensioni inferiori, era circondato da un muro alto 10 piedi sul quale erano poste delle torrette di guardia. C’era anche una serie di altri edifici ausiliari, compreso l’edificio amministrativo con l’appartamento del direttore al 2° piano e, tra le altre cose, anche una piccola prigione e degli appartamenti per le guardie e per le loro famiglie.

Tra gli occupanti della baracca a cui è stato assegnato, Milorad nota un “abissino” (forse un etiope), che si siede vicino a un fornello con lo sguardo assente. Più tardi scoprirà che, dopo aver combattuto per Mussolini come ufficiale dell’esercito italiano durante la fallimentare guerra di conquista dell’Africa Orientale, si era ammalato di mente e, non potendo tornare nel paese d’origine, era stato “scaricato” lì dalle autorità italiane.
Un altro occupante era un corpulento marinaio turco di mezza età: non si sapeva bene perché stesse lì.
Il terzo ed ultimo occupante era un quarantenne, forse greco, che era riuscito a individuare un suo parente in Argentina e che quindi sperava di fuggire presto dal campo.
Margitić viene successivamente spostato in una delle baracche più grandi. Qui, finalmente, incontra alcuni suoi connazionali jugoslavi, ma in questi locali la puzza era insostenibile: il letto si trovava proprio accanto a un’apertura nel muro che dava sui bagni.
.
Margitić vuole andarsene dal campo, vuole andare negli Stati Uniti, ma si accorge che i tempi burocratici per le pratiche sono biblici: per prima cosa avrebbe dovuto contattare un parente o comunque un cittadino americano che garantisse per lui.
C’erano internati, alle Fraschette, che stavano lì da 10 anni, aspettando di andare via, nonostante avessero parenti in America.
Milorad, dopo alcune ricerche, viene a sapere che c’erano altre mete per cui le pratiche erano più veloci, come l’Australia. Ma viene a sapere anche che alcuni internati delle Fraschette, una volta partiti, avevano preferito tornare al campo: a causa del crescente numero di immigrati, l’Australia era un Paese in cui le donne scarseggiavano e non era certo d’aiuto la presenza di molti moralisti puritani anglosassoni la cui forte influenza faceva sì che i bar chiudessero addirittura alle sei di pomeriggio.
Un’altra possibile meta era il Cile, con il quale il governo italiano aveva una specie di patto per cui, a coloro che volevano emigrare dal campo, veniva data della terra dimenticata da Dio, povera come l’Albania.
Un giorno al campo arrivò anche un gruppo di tedeschi della Germania dell’Est: cercavano lavoratori per le miniere, mostrando foto di minatori felici e contenti. La realtà era ben diversa: coloro che andarono lì tornarono alle Fraschette.

Aspettando una buona opportunità per fuggire all’estero, Margitić comincia ad abituarsi alla vita del campo. Ciò che lo ferisce di più è che lì dentro venga considerato un numero, precisamente l’8708 e l’aver perso, in poche parole, l’identità. Questo anche perché non veniva chiamato per nome, ma con il numero.
Tutti gli occupanti del campo avevano naturalmente l’aspirazione alla libertà e si era formato un gruppo nazionalistico serbo di estrema destra: erano serbi fuggiti dal comunismo. A Margitić viene data la tessera di adesione da un serbo nerboruto che dà per scontata la sua adesione al gruppo.
A capo di questo gruppo c’era un membro dell’estrema destra serba autoproclamatosi “Vojvoda” ( “Duca”), che viveva a Roma. Tutti i serbi che volevano andare negli Stati Uniti dovevano aderire al gruppo, dato che lui era stato assegnato dalle autorità americane per l’immigrazione come responsabile dei rifugiati serbi e soltanto lui poteva raccomandare coloro che volevano fuggire in America. Agiva nel campo delle Fraschette tramite i suoi “scagnozzi”.
 
La prova più dura per Margitić fu l’adattamento all’ambiente naturale circostante e anche a quello sociale. Racconta di come le baracche fossero enormi, arrivavano a contenere 80 letti. I soffitti erano molto alti, così come le finestre, che, in gran parte, erano rotte.
Il pavimento di mattoni e l’assenza di riscaldamento facevano sì che le baracche fossero freddissime, specialmente nell’inverno tra il 1955 e il ’56, il peggiore da decenni: c’era  neve fino a Napoli, dove non nevicava da 50 anni.
Per la notte ognuno aveva a disposizione quelle quattro coperte pesanti e sporche che permettevano di stare al caldo, mentre di giorno era peggio: si era costretti a rimanere dentro, avvolti nelle coperte a giocare a carte. Per mantenere alto il calore corporeo la soluzione era mangiare delle grosse cipolle crude.
Come deterrente per gli atti violenti, l’illuminazione nelle baracche rimaneva accesa durante la notte e veniva somministrato del bromuro. Tutto ciò pareva non funzionasse viste le scazzottate che avvenivano per scontri personali tra internati o anche per divergenze politiche o ideologiche.
Anche i legami di amicizia interetnica erano frequenti tra serbi, croati, sloveni, dalmati, come pure, però, le cosiddette “spiate”: fare la spia presso le autorità per l’immigrazione affermando che qualcuno era un sovversivo politico, precludeva, per l’accusato, l’ottenimento del visto per l’America.

Contrariamente ad altri campi italiani, che detenevano sia uomini che donne (o anche famiglie), alle Fraschette c’erano solo uomini (800). Erano tutti giovani tra venti e trent’anni che fuggivano dai paesi del blocco comunista dell’Europa centrale e orientale.
Alcuni rifugiati erano uomini di mezza età o di nazionalità inaspettate all’interno del campo, come un tedesco della Germania dell’Est, un giovane danese e perfino due americani con tanto di jeans (inusuali in Europa a quel tempo), stivali a punta e cappello texano. Tutti si chiedevano perché fossero fuggiti dalla terra che invece tutti sognavano, fino a quando si scoprì che avevano chiesto asilo politico perché erano disertori dell’esercito americano ancora impegnato nel dopoguerra coreano.
Margitić scopre pian piano che nel campo non ci sono solo rifugiati politici, ma ogni sorta di indesiderabili e tipi bizzarri (probabilmente anche con disagi mentali), infatti racconta che, forse per questo motivo, la gente del posto soleva chiamare gli internati “criminali di guerra” o “poveri disgraziati”.


La routine nel campo

La mattina presto i rifugiati venivano buttati giù dal letto dalla “squadra” delle pulizie (rifugiati nel campo che volevano guadagnare qualcosa), veniva distribuito a ciascuno di loro un panino raffermo e poi via, in fila con una lattina d’alluminio tra le mani a ricevere la dose quotidiana di cioccolata liquida. In fila si stava per tutti i pasti, anche se il cibo era sempre lo stesso: pasta con il pomodoro e, due volte a settimana, qualche cubetto di carne di dubbia origine, un bicchiere di vino e una mela.
Durante le pause tra i pasti i rifugiati si riposavano, camminavano, parlavano tra loro, giocavano a carte o praticavano sport (calcio o lotta), mentre altri scrivevano lettere o raccoglievano pazientemente mozziconi di sigarette per recuperare il tabacco, così da poter fare altre sigarette.
Uno dei momenti più gradevoli era quando arrivava la guardia con la posta. Margitić ricorda che l’ufficiale, con una faccia sempre confusa, leggeva i loro nomi pronunciandoli malissimo.
La sera guardavano “Lascia o raddoppia” con Mike Bongiorno sull’unico televisore presente nel campo.
Tempo permettendo, andavano ad Alatri, dove la sera le famiglie passeggiavano; facevano sempre lo stesso tragitto: dalla piazza e poi indietro fino a “dietro le mura” per più volte. Spesso andavano al cinema (ce n’erano due ad Alatri), il biglietto costava pochissimo e trasmettevano i film hollywoodiani doppiati in italiano.
Sulla via del ritorno alle Fraschette, i rifugiati vedevano i contadini poveri che tornavano alle loro fattorie dopo il lavoro nei campi vicini. Margitić era un po’ invidioso: erano liberi, nonostante fossero poveri ed esausti.
Qualche volta, gli internati andavano a Roma per un paio di giorni, dato che avevano qualche soldo racimolato attraverso le lettere dei parenti americani o grazie a qualche lavoretto in nero; mentre altri, quelli senza alcun mezzo, vendevano il proprio sangue, anche oltre le quantità consentite.

I rifugiati ed Alatri

I rifugiati andavano d’accordo con gli italiani.
Le guardie del campo erano gentili e accomodanti, così come l’amministratore del campo, Calafiore, e il direttore Mari.
La Ciociaria, a quel tempo, aveva un’economia molto povera: poca agricoltura e industria quasi inesistente. Sui rilievi attorno al campo c’erano poche fattorie, dove i contadini si spaccavano la schiena per poche lire.

Alcuni erano così poveri che dovevano ricorrere proprio ai rifugiati nel campo per comprare qualcosa a prezzi modici.
La maggior parte degli alatrensi era socievole e amichevole verso i rifugiati.
Molti giovani uomini partivano per i paesi esteri per cercare lavoro, lasciando sul posto molte potenziali spose, mentre altre ragazze trovavano  marito proprio tra i rifugiati. Così successe a Gina Lollobrigida, che era una ragazza di campagna ciociara e che, prima di diventare attrice, sposò uno sloveno rifugiato alle Fraschette.




Nel campo si era diffusa la voce che Milorad sapeva suonare: gli fu subito chiesto di farlo per i rifugiati. La notizia si era così tanto diffusa che Flavio Fiorletta lo contattò: lo prese a far parte del gruppo folcloristico di Alatri.
Margitić fu immensamente grato a Fiorletta per questa opportunità. Fu un’esperienza che gli rese più accettabile la permanenza nel campo.
Con il gruppo folcloristico di Alatri, Milorad ha potuto visitare molte città italiane, esibendosi perfino in tv, alla Rai.
Uno dei membri del gruppo folk, Gigino Minnucci, gli presentò Ennio Santachiara, leader di un gruppo musicale locale che lo chiamò a suonare con lui, esibendosi in concerti ad Alatri e nelle città vicine.
Tutto ciò lo rendeva felice e grato, perché poteva stare molto tempo fuori dal campo, fare amicizia e guadagnare qualcosa (oltre al fatto che era un’ottima occasione per imparare l’italiano).

Tempo dopo, finalmente, la prima possibilità di andare via, di andarsene dalle Fraschette.
Milorad sbrigò tutte le pratiche per poter chiedere di andare negli Stati Uniti. La sua domanda venne esaminata, ma immediatamente respinta: il ragazzo sloveno si era ammalato di tubercolosi.
Passarono i giorni e, grazie a una modesta somma di denaro pervenutagli, andò a Roma per curarsi.
È proprio a Roma che per Margitić si apre il primo spiraglio verso la tanto desiderata America: con un amico osa, scappa e prende il treno per Ventimiglia. Lì si fingono due turisti, fino a quando, coraggiosamente, prendono la decisione di oltrepassare di nascosto il confine: la Francia.
E l’America è ancora più vicina.

Miki torna dagli amici di Alatri


Un doveroso grazie a Ermanno Fiorletta per aver fornito il libro, ad Anna Di Castro per la traduzione, a Miriam Minnucci per la rielaborazione del testo e soprattutto al Sig. Margitić per i suoi ricordi e per aver spedito il libro dall’America


dal libro "le Fraschette di Alatri da campo di concentramento a centro raccolta rifugiati e profughi" di Costantini e Figliozzi

Con preghiera di citare la fonte in caso di utilizzazione del testo