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mercoledì 26 agosto 2015


LE FRASCHETTE

LUOGO DI DOLORE


https://www.costantinojadecola.com/2020/11/25/le-fraschette-luogo-di-dolore/


Ma a Frosinone c’era o non c’era un campo di concentramento? A provocare il quesito fu, nel 1998, un passaggio di un libro di Arrigo Petacco pubblicato quell’anno, L’archivio segreto di Mussolini, nel quale l’autore riporta tra virgolette parte di «un lungo rapporto dell’OVRA (Opera Volontaria di Repressione Antifascista, ndasull’attività politica-economica-amorosa del gerarca cremonese» Roberto Farinacci. Petacco scrive che questo rapporto «è del 1940 e contiene l’elenco completo delle sue malefatte(di Farinacci, nda), dalle speculazioni ‘della banda Farinacci, Varenna, Candiani, sempre sotto accusa quando c’è uno scandalo’, ai suoi intrallazzi per favorire gli ebrei ricchi mentre nel contempo manifesta il proprio antisemitismo facendo ‘rinchiudere nel campo di concentramento di Frosinone due giovani israeliti, Vito e Salvatore Fano, di Roma, colpevoli di avere rivolto la parola a due ragazze ariane’»[1].

Ora, se queste cose Petacco le avesse scritte lui, evidentemente non ci sarebbero stati problemi per saperne di più; dal momento, però, che di esse egli ne è il semplice trascrittore, è difficile che possa darne ulteriori delucidazioni. 

Non resta, allora, che ipotizzare qualche soluzione. Della presenza di un campo di concentramento a Frosinone, inteso come città, tracce non ce ne sono. Né pare vi sia cenno alcuno nel libro di P. Francesco Tatarelli La morte viene dall’alto [2], la più esaustiva pubblicazione sulle vicende di guerra capitate al capoluogo. 

Può, dunque, ragionevolmente supporsi che potrebbe trattarsi, piuttosto, del campo di concentramento delle Fraschette, un’ampia fascia di territorio ad ovest di Alatri «delimitata da grosse mura» dove vennero costruite «174 baracche, di cui un centinaio attrezzate a dormitorio»[3]. Esso venne realizzato «dopo l’occupazione e lo smembramento della Jugoslavia, nel 1941», quando, scrive Mario Costantini, «all’Italia andò parte della Slovenia, il litorale dalmato della Croazia, il Montenegro ed il Kosovo. Seguì una vera e propria operazione di ‘pulizia etnica’, con la massiccia migrazione forzata di parte di quelle popolazioni (500.000 persone circa) verso campi di internamento realizzati in Italia e in Albania. Alcuni furono realizzati a Cairo Monte Notte, Fossalon di Grado, Gonars, Grumello al Piano, Lanciano, Lipari, Monigo, Renicci ed Alatri. Questi campi erano gestiti al di fuori delle disposizioni normative in materia, con il risultato di alti indici di mortalità e condizioni di vita raccapriccianti».

Quello delle Fraschette è un problema che emerge nell’estate del 1943, quando, come scrivo in un mio libro[4], «sono suoi ‘ospiti’ oltre 5.000 persone fra croati, slavi, sloveni, montenegrini, albanesi e tripolini italiani».

A creare le maggiori preoccupazioni è, però, la presenza di «un numero rilevante di bambini» ai quali, scrive don Giuseppe Capone, manca la benché minima assistenza, «quell’assistenza di cui avrebbero avuto estremo bisogno. La mortalità nel campo, specialmente tra i piccoli, era grande. I fanciulli infatti erano privi di ogni cura e lasciati per tutta la giornata in balia di se stessi. La ristrettezza delle baracche induceva le mamme a spingerli fuori» [5].

Ed è proprio grazie all’impegno del vescovo di Alatri, mons. Edoardo Facchini, se gli internati delle Fraschette possono beneficiare, dal 18 luglio del 1943, dell’assistenza e delle attenzioni di una sparuta pattuglia di suore Giuseppine “capitanata” da madre Mercedes Agostini.

Appena passata la guerra, che anche alle Fraschette lascia le sue drammatiche testimonianze di morte e di dolore, «le baracche di cartone bruciato, ancora intrise di sangue dei Tripolini e dei Montenegrini, furono ricostruite», scrive, invece, il compianto Alberto Minnucci, «per internare profughi di tutte le razze. Vi furono distinti due campi: il famigerato ‘Campo 1’ per le ‘canaglie’ che non avrebbero potuto uscirne mai, e il ‘Campo 2’ per i tollerabili o recuperabili. Al centro sorse una cappella. Le due zone per il Padre Buono (mons. Facchini, ndanon furono che distinzione topografica: Egli si pose al centro dei figli prediletti per rivolgere agli uni e agli altri l’affetto e la parola di Dio, Padre di tutti».

«Dopo l’8 settembre 1943», scrive ancora Mario Costantini, «il campo non ebbe più sorveglianza esterna. Iniziarono saccheggi e distruzioni. I tedeschi operarono rastrellamenti in cerca dei giovani del campo. Il 22 febbraio 1944 venne impartito un primo ordine di partenza per gli internati rimasti al campo, ma i bombardamenti e la conseguente interruzione della linea ferroviaria verso Roma, indussero a rimandare il proposito. I tedeschi, in quell’occasione. arrestarono 7 soldati inglesi nascosti nel campo. Il 23 febbraio un bombardamento alleato procurò 7 morti e alcuni feriti. Gli internati vennero trasferiti ad Alatri ed ospitati presso l’Ente Conte Stampa. La sera del 25 febbraio dalla Piazza S. Maria Maggiore il primo gruppo di internati partì alla volta di Roma. La loro destinazione finale era il campo di concentramento di Fossoli, presso Carpi, dove giunsero il 2 marzo 1944».

La storia delle Fraschette, però, non finì lì. Dopo il 1944 il campo ospitò prima prigionieri tedeschi, poi profughi italiani di Istria, Dalmazia ed Africa e quindi quelli in fuga dai regimi comunisti, specialmente ungheresi. Fra i quali  si ricorda la presenza dell’attaccante Lászió Kubala che occupa la 32ª posizione nella speciale classifica dei migliori calciatori del XX secolo pubblicata dall’IFFHAS (la Federazione Internazionale di Storia e Statistica del Calcio) nel 2004 e di Isidoro Marsan cestistaallenatore di pallacanestro e imprenditore. Negli anni ’60, invece, fu la volta degli italiani residenti nelle ex-colonie a seguito dei decreti di espulsione degli immigrati europei che vennero rimpatriati a ondate almeno per un decennio.

Tornando alla notizia riportata da Arrigo Petacco, ci si chiede: ma si trattava di un concentramento vero e proprio o di posti di confino? Se così fosse l’attenzione dovrebbe spostarsi su San Donato Val Comino e Picinisco che, appunto, tali furono. Qui, infatti, per lungo tempo trovarono ospitalità molti ebrei, quasi tutti appartenenti a nazioni in guerra contro Germania e Italia: tra loro, Margarete Bloch, l’amante di Franz Kafka. Una triste storia la sua. Costretta a lasciare la Germania per motivi razziali, dopo varie peregrinazioni riesce infine a riparare a Firenze. Scoperta, è obbligata a trasferirsi con foglio di via a San Donato Val Comino. Una permanenza nel corso della quale maturò l’idea di convertirsi al cristianesimo — dettagli per i quali rimando al mio libro Linea Gustav[6] — prima di affrontare l’ultimo viaggio verso Auschwitz.

© Costantino Jadecola, 2002

[1] Arrigo PETACCOL’archivio segreto di Mussolini. Mondadori. 1998, p. 28.

[2] Francesco TATARELLI La morte viene dall’alto. Casamari. 1978.

[3] AAVVEdoardo Facchini. Sacerdote, vescovo, patriota. A.P.C. Frosinone. 2005, p.61

[4] Costantino JADECOLAMal’aria. Centro di studi sorani “V. Patriarca”. Sora. 1999.

[5] Giuseppe CAPONELa provvida mano. Casamari. 1973.

[6] Costantino JADECOLALinea Gustav. Centro di studi sorani “V. Patriarca”. Sora. 1994.




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Un paesaggio senza memoria.

Il campo “Le Fraschette” di Alatri


un articolo di Angelica Stramazzi pubblicato in 

Anagnia Sito Web di notizie/media

 http://goo.gl/qL8vy7

24 luglio 2015  


Chi l’ha visto? Chi sa anche solo che esiste? C’è un lager nel cuore della Ciociaria, messo su ai tempi del fascismo, uno dei duecento funzionanti. La scoperta per la cronista che qui ne scrive, è avvenuta per caso. E si scuserà se l’emozione induce a tirare subito la morale: bisognerebbe portarci gli studenti delle scuole, e raccontarne la storia. Per capire a che cosa porti il totalitarismo, e come esso sia esasperato nei suoi frutti malati dalla guerra: la memoria tastata con le mani e con gli occhi è educazione alla libertà.

La storia comincia un sabato pomeriggio di primavera. Userò la prima persona singolare per ragioni biografiche ed esistenziali: non saprei trattare asetticamente il senso di stupore per l’ignoranza indotta dal possente potere dell’occultamento del male. Ne sono testimone diretta e protagonista involontaria. In trent’anni, avendo sempre vissuto a pochi chilometri da quel vasto orrore, non avevo mai letto né udito dell’esistenza di quella realtà concentrazionaria.
Quel sabato dunque sento quel nome: “Le Fraschette” di Alatri, il lager delle Fraschette. Un nome così gentile associato al filo spinato. Il luogo di questa rivelazione è il Museo Vivo della Memoria di Colle San Magno, un piccolo paese in provincia di Frosinone, poco distante da Pontecorvo.
La curatrice del museo parla di un campo di concentramento fatto costruire dal regime fascista con lo scopo di internare i dissidenti del regime, tutti coloro che contrastavano la figura di Benito Mussolini. Resto di stucco: Alatri si trova a pochi chilometri di distanza dal paese in cui vivo, Serrone; eppure, mai saputo.


Riesco ad incontrare Peter Zagar, figlio di Josef Cirillo Zagar, uno dei tanti prigionieri del campo, deceduto nel febbraio del 2010. Scambio qualche chiacchiera con lui nel piccolo bar di Piazza Maggiore ad Alatri, poco prima di dirigerci all’interno della biblioteca comunale. E’ un caldo pomeriggio di inizio estate e la prima cosa che mi colpisce di Peter sono i suoi grandi occhi chiari, testimoni di un passato difficile da dimenticare.
«Pochi anni dopo l’inizio del secondo conflitto mondiale – mi spiega Peter – mio padre è stato messo su un treno che, dall’Alta Italia, ha impiegato tre giorni per arrivare al campo di Alatri. In questi tre giorni, il treno non si è mai fermato e tutti coloro che dovevano fare dei bisogni, dovevano farli nei vagoni. Queste persone sono state trattate come degli animali; anzi, peggio degli animali. Una volta arrivati alle Fraschette, mio padre e gli altri suoi compagni di viaggio hanno trovato un territorio completamente recintato; in ogni piccola cameretta, venivano sistemate dalle quattro persone in su. Era impossibile lasciare incustoditi i propri effetti personali perché non esisteva un sistema di controllo che impediva che gli oggetti di valore non venissero rubati.
Così, appena i prigionieri potevano allontanarsi un po’ dal campo, cercavano di sotterrarli facendo delle buche per terra con il tacco della scarpa. Mio padre mi raccontava che non ti potevi fidare di nessuno perché ogni persona era portata alla disperazione e tutto diventava una mera questione di sopravvivenza».
Bisogna vedere però. Arrivo alle Fraschette insieme a Peter, a Marilinda Figliozzi, per anni in forze all’Ufficio Cultura del Comune di Alatri e al giornalista Pietro Antonucci. La strada che porta al campo è un lungo sentiero di campagna ben sterrato, rettilineo, con poche curve che costeggiano verdi appezzamenti di terreno. Decidiamo di entrare attraversando un’entrata secondaria perché quella principale risulta chiusa, o perlomeno viene aperta solo in determinati giorni dai Vigili del Fuoco.

La prima cosa in cui ci imbattiamo è la chiesetta diroccata, usata dagli internati per sentir messa e per far sì che i bambini presenti alle Fraschette potessero ricevere la prima comunione.
L’aspetto religioso di questo campo di Alatri non è certo da sottovalutare: quello delle Fraschette, oltre ad essere l’unico dei duecento lager italiani fatti costruire dal fascismo ad essere rimasto parzialmente in piedi, è anche l’unico campo di concentramento in Italia ad aver avuto l’assistenza di un gruppo di suore, le “Giuseppine di Chambery” di Veroli, provincia di Frosinone. Un ruolo particolarmente importante è stato svolto in tal senso da madre Mercedes Agostini, il cui diario resta a tutt’oggi uno dei documenti più interessanti attraverso il quale poter ricostruire la quotidianità del campo. «Sua Eccellenza, il Vescovo di Alatri mons. Facchini – si legge in questo diario – uomo infaticabile e pieno del più ardente zelo apostolico, parlando con la nostra Superiora di Veroli del campo di concentramento a Le Fraschette di Alatri, mostrò tutto il suo dolore poiché vedeva ben 5.500 internati tra cui un numero rilevante di bambini senza quell’assistenza di cui avrebbero avuto estremo bisogno. La mortalità nel campo, specialmente tra i piccoli, era grande. I fanciulli infatti erano privi di ogni cura e lasciati per tutta la giornata in balia di se stessi. La ristrettezza delle baracche induceva le mamme a spingerli fuori».
Qui stavano in 5.500! Di quelle baracche di cui parla madre Mercedes oggi restano ruderi: qualche capannone semidiroccato che sta resistendo con grande fatica alle intemperie e alla neve che, spesso e volentieri, imbianca queste zone della Ciociaria in inverno. E’ possibile inoltre scorgere ciò che resta di quella che forse era una cucina ma forse no, poiché, come mi spiega Marilinda Figliozzi, l’esistenza o meno di una cucina all’interno del campo è parecchio discussa. Le Fraschette era dotato di una infermeria, di una biblioteca e, strano a dirsi, addirittura di una piscina! Propaganda o verità, quest’ultima? Di certo l’igiene era talmente problematica, come scriveranno gli stessi occupanti tedeschi, che doveva essere una specie di pozza delle malattie.

Tornando alla vita spirituale all’interno del campo, sempre madre Mercedes nei suoi scritti ricorda che le due figure di riferimento degli internati erano il vescovo Facchini e il cappellano padre Goffredo Anfussi. «Mons. Facchini – scrive la Agostini – considerò gli internati cuore del suo cuore. Dio solo sa il lavoro, le lotte che dovette sostenere per tutelare i diritti degli internati, per difenderli dai soprusi, per dar loro aiuti materiali e morali. Le sue visite al campo erano frequenti; spesso veniva a piedi, non badando al freddo, al caldo, alla pioggia. […] Il Padre cappellano del campo era Padre Goffredo. Il Padre, così era chiamato, fu tale non solo per i tripolini, ma per ogni altro membro del campo. I 5.500 internati furono tutti considerati come suoi parrocchiani amatissimi. I sussidi in denaro ottenuti personalmente a Roma e sollecitati con lo scritto raggiunsero qualche centinaio di migliaia di lire. Egli conosceva i bisogni di tutti e tutti adeguatamente soccorreva. Il Padre aveva adottato il principio di Don Bosco, quello cioè di non tenere mai in ozio. Solo così ebbe dei giovani esemplari in tutto, e di cui le famiglie erano orgogliose. Nella baracca-chiesa si svolgevano le funzioni, come in una parrocchia in efficienza».


Conservare la memoria, anche del male, è un dovere. Aiuta a capire, ad evitare il suo ripetersi, come un monito.
Non è facile del resto ricostruire il fenomeno dell’internamento italiano durante il secondo conflitto mondiale. Esistono opere di storici ad esso dedicate, ma non godono di alcuna risonanza fuori dal ristretto mondo degli accademici.  Per capirne di più, andrebbe divulgato il volume di Alessandra Kersevan Lager italiani.
Ma fermiamoci al campo delle Fraschette, per intanto.
Esso cominciò a funzionare nel luglio del 1942 quando venne realizzato un primo nucleo abitativo in cui poter ospitare all’incirca mille persone.
Per due anni, fino quindi al 1944, il campo è a tutti gli effetti un vero e proprio campo di concentramento. Il 7 gennaio 1944 – come ricordano Mario Costantini e Marilinda Figliozzi nel loro libro Le Fraschette di Alatri: da campo di concentramento a centro raccolta rifugiati e profughi, ad oggi unico testo completo in grado di ricostruire le vicende del campo – il capitano e comandante di Alatri, Schumacher, scrisse al Direttore del campo durante il conflitto: «Il campo di concentramento nelle sue attuali condizioni non è sopportabile nell’interesse dell’esercito germanico per la difesa dell’Europa e del mantenimento della sicurezza e dell’ordine delle retrovie. L’approvvigionamento alimentare degli internati è in parte deficiente, sia per mancanza di organizzazione provinciale, sia per la effettiva mancanza di viveri. In seguito alla mancanza di cure mediche e allo scarso nutrimento, come pure alla deficienza di igiene, è prevedibile fin da ora che il campo diverrà fonte di epidemie e malattie, ciò che costituirebbe un grande pericolo oltre che per la popolazione, per le Forze Armate germaniche. In considerazione di ciò, Vi prego di sollecitare presso i Vostri superiori lo sgombero del campo».
Il campo è stato dunque utilizzato in vari modi nel corso dei decenni. Quello che tanti ad Alatri – ma non solo – ricordano è un utilizzo successivo alla fine del secondo conflitto mondiale, ossia il centro raccolta profughi che ospitò centinaia di persone che chiedevano all’Italia una sistemazione abitativa e un lavoro, per ricominciare una nuova vita. Tuttavia, il fatto che si parlasse delle Fraschette come di un centro raccolta profughi e rifugiati ha fatto sì che in qualche modo si occultasse la primaria vocazione del campo stesso, quello cioè di essere un campo di concentramento fatto erigere dal regime fascista di Benito Mussolini. Questo ha comportato, di conseguenza, un disinteressamento delle istituzioni, soprattutto nazionali, ad investire su questa realtà affinché potesse emergere nel corso di questi anni un pezzo di memoria condivisa, ad uso soprattutto delle giovani generazioni.
Non è un caso che solo negli anni Novanta si ricomincia a scoprire la vera storia del campo, cioè la storia – come ricordato nella prefazione del libro di Costantini e Figliozzi – «di un villaggio baraccato nato per ospitare prigionieri di guerra e che finì poi per diventare un campo di concentramento nel corso della seconda guerra mondiale». In tal senso, si comprendono i ripetuti appelli degli storici locali e di tutti coloro interessati a tutelare ciò che resta del campo alle autorità politiche, in primis quelle regionali, affinché ciò che resta delle Fraschette non venga del tutto distrutto dalle intemperie e dall’incuria umana.
Mentre mi aggiro per il campo, tra rovi e sterpaglie noto qualche innocente capretta che bruca un po’ d’erba; qua e là, su ciò che resta dei muri che un tempo delimitavano le camerette degli internati, emergono le scritte di qualche vandalo o di chi non si rende conto – si spera – di violare con la sua volgarità un luogo reso sacro dalla sofferenza. Tutto intorno, resti di gomme di automobili, pezzi di vetro, bottiglie vuote ed altra immondizia.
Mi ripete Peter che «noi possiamo far diventare questo campo ciò che vogliamo, un parco, un museo: è solo una questione di volontà. Campi di concentramento come Auschwitz, Mauthausen, Bergen-Belsen, Treblinka sono conosciuti in tutto il mondo e le persone che ci vivono intorno non hanno aspettato che qualcuno agisse al posto loro; si sono dati da fare. Proprio quello che dobbiamo fare noi: serve un immediato coinvolgimento della Regione Lazio o del ministero dei Beni culturali o della Difesa perché il campo sta cadendo a pezzi offendendo chi ci ha patito».
Stiamo perdendo tutto, non perdiamo la memoria e ciò che può sostenerla.

Angelica Stramazzi

Bibliografia di riferimento:
Alessandra Kersevan, Lager italiani. Pulizia etnica e campi di concentramento fascisti per civili jugoslavi 1941-1943, ed. Nutrimenti, 2008.
Mario Costantini-Marilinda Figliozzi, Le Fraschette di Alatri: da campo di concentramento a centro raccolta rifugiati e profughi.

  

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