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domenica 11 novembre 2012

Ivan Galantic

Ivan Galantic - Professore emerito di Arte alla Tufts University negli USA

“Primavera 1941 la Germania attacca la Yugoslavia, Un giorno una nave da guerra italiana attraccò al piccolo porto del mio villaggio Malinska. Il capitano della nave disse: "Sono venuto in nome di Vittorio Emanuele III re di Italia ad occupare questo villaggio”. Il responsabile del Porto chiese:”In nome di chi?“. "In nome di Vittorio Emanuele III, capito?“Capito Signore”.
Tutti avevano capito che eravamo stati occupati da una forza straniera e che saremmo stati governati da un regime oppressivo.
Non passò molto tempo che mi ritrovai ad essere trasferito dalla prigione locale a un campo di concentramento in Italia.(…)
Dopo l’8 settembre, noi prigionieri del campo Fraschette ci ritrovammo liberi. E senza cibo. L’Unica consolazione veniva dall’udire i colpi di cannone degli Alleati che combattevano a Cassino, che noi aspettavamo da un giorno all’altro. Ma passavano i mesi
 e la vita era difficile senza cibo. I contadini che vivevano nelle montagne intorno al campo non erano molto felici di vederci li intorno. Infatti i tedeschi avevano fatto sapere loro che chiunque avesse aiutato i prigionieri politici sarebbe stato fucilato. (…)
Io ero sempre molto affamato. Alla mia età qualche uovo o un frutto caduto non erano certo sufficienti. Un giorno di fine ottobre decisi che dovevo mangiare. Scelsi la casa di un contadino , che era isolata con l’intenzione di rubare qualcosa da mangiare. Aspettai fino a che la famiglia si fosse riunita per cenare. Quando vidi attraverso la porta aperta che la pietanza era stata portata in tavola , entrai. Sul tavolo basso c’era un piatto di legno fatto a mano che conteneva una pasta di granturco che si chiama polenta, con sopra della cicoria condita con aglio e olio. C’erano 6 o 7 persone intorno al tavolo e tutte mangiavano dallo stesso piatto.
Li salutai e chiesi un po’ di acqua perché avevo sete. Loro mi guardavano senza rispondere. Avevo tenuto tutto il tempo gli occhi sulla polenta, con la chiara intenzione di affondarvi entrambe le mani, prenderla e scappare. Preso in queste considerazioni, con gli occhi sempre incollati sul pasto caldo, sentii le parole più belle della mia vita, accompagnate dal rumore di un altro sgabello avvicinato al tavolo e di un’altra forchetta che si piantava nella polenta. Non in Dante, nemmeno in Shakespeare e nemmeno nel Vangelo si possono trovare parole più belle , anche se pronunciate in un dialetto molto marcato:”che po fa’, pur’iss è figlie de mamma”.


In quella casa di contadini ho avuto testimonianza del più grande valore che l’uomo possa conoscere. Ho visto la bontà.”

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